giovedì 8 luglio 2021

Sogni: di grandi appartamenti, di mobili Chester, e di famiglie.


 Ho deciso di ricominciare a scrivere il blog inaugurando una nuova rubrica, che tratta di sogni, dei miei nello specifico. Almeno per ora. 

Non tenterò di interpretarli o di spiegarli. Non seguiranno un ordine cronologico. Semplicemente li racconterò. La mia parte creativa si è rifugiata nell'inconscio ed è lì che lavora alacremente, creando mondi complessi e ricchi di simboli onirici. Buona lettura.

[Sogno]

La mia psicoterapeuta mi invita ad andare a casa sua per conoscere sua nipote e il ragazzo.

L'appartamento si trova in uno di quei vecchi palazzi signorili tipici di Via Cavour, metratura ampia, soffitti alti. Decadenti le scale, gradini di marmo consumati e bassi. Ascensore in legno, rumoroso, dall'odore inconfondibile.

L'arredamento è in stile Chesterfield, grossi mobili in ciliegio, divani in pelle verde, dalle forme austere ma sinuose. Non è luminoso, tinte scure dominano la casa.

Pavimento in cotto con disegni ormai consunti dai troppi passi.

Io non capisco il motivo di tale invito, ma comunque accetto.

Entrata in casa scorgo da lontano la nipote che è un tipino dall'aria sportiva, fisico asciutto e atletico, piccolina nel complesso, viso minuto dai lineamenti leggermente appuntiti, capelli corti biondi e occhi azzurri sorridenti.

Il suo ragazzo si sarebbe potuto definire un freakettone, dai colori scuri, anche lui asciutto e piccolo di statura ma comunque più alto di lei. Capello lungo arruffato e vestiario comodo.

I due si amano, tubano continuamente, si abbracciano, si guardano, si sorridono, sembra che danzino un motivetto tutto loro. Una canzone delle loro anime che vibrano all'unisono.

E io continuo a chiedermi perché la mia psicoterapeuta abbia deciso di farmi vedere tutto questo.

Io non sono felice per loro, e sono infelice per me.

Racconto i miei pensieri e le mie perplessità alla mia amica A., che è lì con me ma non fisicamente: l'avverto, le parlo, mi rivolgo a lei, ma il suo corpo non c'è.

Sempre osservando da lontano però noto che il rapporto tra la mia psicoterapeuta e sua nipote è un rapporto speciale, molto affettuoso e intimo. E' qualcosa che va oltre l'amore che c'è tra una nonna e la propria nipotina.

Inizia ad arrivare gente. Soprattutto donne. E piano piano capisco che è la famiglia della mia psicoterapeuta. Sorelle, cugine, zie...

Una sua sorella, una donna minuta sulla settantina dai capelli sale e pepe, si avvicina e mi spiega che quel giorno è un giorno speciale perché è il giorno della commemorazione della morte della figlia della mia psicoterapeuta, nonché madre della nipote.

Ogni anno la famiglia si riunisce e ricordano la defunta osservando, toccando e passando di mano in mano vari oggetti che le erano appartenuti o che avevano un legame con lei. Tutti hanno un sorriso sul volto, ma le espressioni sono nostalgiche e malinconiche.

Mi arriva tra le mani un piccolo santuario, fatto in das, abbastanza grossolano. Ricorda una lapide, ma non lo è. Riporta una data, la data della morte avvenuta per un incidente.

Ed è  in quel momento che io finalmente comprendo il perché della mia presenza in un evento così intimo: la mia psicoterapeuta vuole che io capisca che anche da un dolore immenso (quale può essere la perdita di una figlia) può nascere qualcosa di meraviglioso (il rapporto speciale con la nipote).

Se la figlia/madre fosse ancora viva, quel legame tra nonna e nipote non sarebbe diventato così forte, così importante. Probabilmente non sarebbe neanche esistito.

Il mio cuore si gonfia, i miei occhi si riempiono di lacrime, ho bisogno di andare ad abbracciare la mia psicoterapeuta, ho bisogno di farle sentire che ho compreso, che ci sono, che ho capito.

Ma i parenti che vanno e vengono per la casa si pongono tra di noi, lei si allontana, e io non posso esprimerle il mio affetto.

Decido allora di mettermi in disparte, ed entro in un'altra stanza della casa.

Mi siedo su una poltrona, a gambe incrociate, e racconto tutto quello che stava succedendo nell'altra stanza ad A., che è in piedi, appoggiata allo stipite della porta, dietro di me.

Continuo a non vederla, ma lei c'è. 

Mentre le spiego soprattutto quello che ho capito e provato, vedo arrivare un volpino.

E' il cagnolino della mia psicoterapeuta e lo osservo mentre si acquatta sotto una madia per uscirne dopo un po'.

Vado a controllare cosa è successo, perché il canetto è vecchietto, e infatti trovo una piccola macchia di vomito e succhi gastrici. Il piccolo è molto stressato dalla presenza di così tante persone in casa sua.

Ma osservando bene sotto la madia, mi rendo conto che tutto il pavimento è coperto di vomito, datato, stantio.

Comprendo quindi che lì, in quella casa, in quelle stanze, qualcuno è stato male, ma non un male fisico, un male dell'anima. Non una malattia, ma uno stato prolungato di malessere.

Mi sveglio.

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